Diario dalla Palestina – parte 1

di Pietro Pasculli

Iniziamo da oggi la pubblicazione periodica su Proletaria, sia in formato blog che mensile, dei resoconti e delle testimonianze inviateci dal compagno Pasculli dalla Palestina, impegnato con un’organizzazione internazionale a favore della causa palestinese.

Mercoledì 14 ottobre – Hawwara (Nablus, West Bank)

Siamo circondati. Non è un modo per rendere avvincente la storia, questa è la pura realtà. Doveva essere un giornata tranquilla, ma ho capito che qui non ci può essere giorno tranquillo, un popolo oppresso non può essere mai tranquillo. Alle 10:30 partono dieci spari, un uomo viene gambizzato dai coloni. Non si sa ancora se si tratti di un uomo adulto o di un bambino. Ci avviamo al luogo dello scontro, ma a quanto pare per i coloni sparare non è abbastanza e quindi decidono di dare alle fiamme tutta la zona circostante. Hawwara è un paese a sud di Nablus, la città è circondata da nuovi insediamenti israeliani e oggi dal fuoco. Gli ulivi sono l’unica fonte di ricchezza per i palestinesi e per questo motivo spesso vengono date alle fiamme le terre.

Oggi la situazione è davvero precipitata. I punti dove l’incendio si propaga sono dei punti strategici. Le strade che portano ai monti ed alle terre palestinesi sono di proprietà israeliana. I pompieri del paese da li non possono passare. E allora ci muniamo di alcuni rami di ulivo e di alcuni secchi pieni di sabbia per spegnere l’incendio. Ogni tanto avvertiamo delle esplosioni ed altri incendi si propagano intorno a noi. Siamo circondati. La rabbia non ti fa sentire il calore del fuoco e cerchi con tutto te stesso di spegnere quell’incendio, di spegnere l’oppressione. Il fumo negli occhi, le fiamme bruciano la superficie della pelle sulle braccia. Dopo due ore incessanti insieme ai compagni palestinesi riusciamo a spegnere il lato nord della montagna, molte zone sono compromesse. Lungo la strada del ritorno incontro due bambine che escono da scuola, avranno sei anni circa, una di loro si avvicina a me, mi sorride e mi stringe la mano.
Se pensate che la civiltà sia in occidente non avete ancora capito un cazzo.

Sabato 17 ottobre – al-Khalil (Hebron, West Bank)

Un giovane palestinese è stato colpito a morte dai coloni israeliani nella zona occupata di al-Khalil,  Hebron [nome israeliano, ndr]. Mentre il giovane palestinese camminava, tre coloni gli hanno urlato in arabo e dopo uno di loro ha estratto una pistola e lo ha sparato. Un testimone oculare riferisce che l’attacco è stato del tutto immotivato e che i coloni hanno sparato quattro colpi al ragazzo palestinese, uno dei quali in testa. Ai palestinesi è vietato arrivare nella zona dove è avvenuta l’esecuzione, i coloni sono invece autorizzati a passare portando té e biscotti per se stessi ed i soldati. Il ragazzo aveva 18 anni.


Attualmente ci sono scontri vicino alle zone occupate ed ho avuto notizie di una ragazza ammazzata nella moschea. Appena ho nuove notizie vi aggiorno con cronaca e se riesco foto. In questo momento i soldati detengono un ragazzo palestinese ed io ed altri due internazionali siamo con lui.

Sabato 17 ottobre – al-Khalil (Hebron, West Bank)

Ore 20:30, al-Khalil: i palestinesi (e noi internazionali che viviamo qui) non possono uscire dalle proprie case ed affacciarsi alle finestre. La zona da adesso è presidio militare. Decine e decine di soldati sorvegliano l’area con i fucili puntati e con le torce controllano i tetti ed i balconi. Gli spari in sottofondo fanno da cornice al coprifuoco. Sta succedendo qualcosa di grosso e non vogliono che nessuno guardi.
Così si vive qui in Palestina.

Sabato 17 ottobre – al-Khalil (Hebron, West Bank)

Una famiglia chiede il nostro aiuto. Nella notte scorsa nel quartiere di Wadi al-Hussein, a nord di al-Khalil, i coloni lanciano pietre e bombe incendiare in tutta la zona. Nella casa della famiglia Dana, tre ragazzi palestinesi vengono feriti. Un bambino di 13 anni viene colpito al petto da una molotov, Abdullah Nasser Dana, e due ragazzi vengono colpiti da pietre, Basil Khaled Dana, di 16 anni e Emid Sayeed Dana di 25 anni.
Mi reco insieme ad un altra attivista statunitense dalla famiglia che ha subito la violenta aggressione.

Per raggiungere l’abitazione un gruppo di palestinesi mette a disposizione la loro auto. Per giungere nella zona dobbiamo attraversare strade secondarie sterrate, le vie principali sono spesso teatro di spari contro le auto da parte dei coloni. Tratti di strade principali sono impossibili da evitare e bisogna passare da lì. Nessuno cammina lungo le strade ed intorno vi è solo silenzio. Si ha davvero paura, ma non si puo avere coraggio se non si ha paura. Non potete immaginare che organizzazione si mette in atto per poter camminare lungo le strade. Ci si ferma lungo la strada a fari spenti e ci si mette in contatto con un altro palestinese che abita a qualche centinaio di metri più in là per chiedere se la zona è praticabile.

Arrivati dalla famiglia, uomini donne e bambini ci accolgono come fratelli nella propria casa. Per entrare nella casa abbiamo dovuto scavalcare un muretto con del filo spinato. Qui, in questa zona, dalle 20:00 in poi nessun palestinese può più uscire di casa. Chiunque non rispetta l’ordine viene sparato dalle forze israeliane. Se i soldati dovessero trovarci qui, noi internazionali verremmo arrestati all istante ma ai palestinesi andrebbe molto peggio. Ai mezzi corazzati, si aggiungono i coloni che si riversano sulle strade armati di fucile. A loro è consentito sparare nelle case e lanciare molotov tutto sotto la protezione dei soldati come è accaduto la settimana scorsa. Alle 23:40 i soldati iniziano a sparare gas e lanciano bombe incendiarie in tutta la zona.

L’area è irrespirabile, si fa fatica a respirare e il gas, oltre a rendere difficile il respiro, irrita gli occhi e la lingua. Forti esplosioni si susseguono per tutta la notte. Non riesco a credere a quello che vedo. Ragazzi e uomini palestinesi restano nel giardino della propria abitazione per controllare la situazione. Ci si mantiene svegli e ci si riscalda con tè e caffè. Chiedo ad un ragazzo palestinese da quanto tempo va avanti questa situazione. Lui dice di non ricordare, perché la loro vita è sempre questa, tutti i giorni, tutte le settimane , ogni mese. Quello che ho vissuto questa notte e che mi è sembrato insostenibile, loro lo vivono tutti i giorni. Di qualsiasi cosa i palestinesi di questo quartiere dovessero aver bisogno, non è consentito loro uscire di casa ed in caso di bisogno medico-sanitario l’arrivo dei soccorsi viene ritardato volontariamente per ore cosi come è accaduto la scorsa notte.
Così si vive nella parte nord di al-Khalil, occupata dai coloni. Questo regime di apartheid è continuo e costante.
All’ennesimo lancio di gas e granate un uomo palestinese si rivolge a me con le lacrime agli occhi e dice: “This isn’t freedom, this is not life… this is Israel. Where is my future?”. Non so se abbracciarlo, piangere o lanciare qualche masso a quei bastardi. Nell’indecisione, mi guardo attorno e vedo i giovani sorridere. Israele li ha privati di tutto, ma non è ancora riuiscita a portar loro via il sorriso.
Io sono qui solo da una settimana ed il mio sorriso è gia andato via da un pezzo.

 

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