Diario dalla Palestina – parte 3

di Pietro Pasculli

Martedì 27 ottobre – al-Khalil (Hebron, West Bank)

Ci sono un Italiano, una francese e centinaia di palestinesi. No, questa volta non si ride, è quello che io, la volontaria internazionale e tanti Palestinesi abbiamo vissuto qui oggi. Sono le 13.00 qui ad al-Khalil (Hebron), contestazione organizzata dalla popolazione dopo lo spargimento di sangue degli ultimi giorni ed il degenerare del numero di soldati impiegati nell’insediamento. La manifestazione si tiene a Bab al-Zawwiyeh street, nei pressi del checkpoint. Centinaia di persone accorrono. I canti e le bandiere al vento sono la risposta che il popolo palestinese vuole dare alle morti ed all’apartheid che ogni giorno centinaia di uomini/donne/bambini sono obbligati a vivere in questo angolo di terra. Tutto si svolge in un atmosfera del tutto distesa, niente disordini oggi. Il clima è davvero piacevole, ed io e l attivista francese decidiamo di addentrarci nella “pancia” della contestazione. I palestinesi ci aprono la strada, alcuni ci riconoscono e vogliono che noi riportiamo ai media ed alle nostre case le immagini di un popolo che non piega mai la testa e che urla la sua voglia di libertà.

Dalla pancia della folla, ci ritroviamo in testa. Di fronte a noi si manifesta il cordone dei soldati e della border police. Sono almeno in 30. Sulle terrazze degli stabilimenti del check point si fanno strada altri soldati con le armi puntate sulla folla. Sono sereno, non c’e alcun motivo che mi induce a pensare che quelle armi possano essere usate contro di noi oggi, mi dicevo. Sbagliavo. Semplicemente avevo dimenticato per un attimo che di fronte a me si palesavano degli esseri svuotati della loro umanità, degli insani bipede che con un corpo sanguinante a pochi metri riescono a ridere e gustare dei biscotti al miele accompagnati da un caldo té, o che nel punto in cui un ragazzo di 18 anni dice per sempre addio alle sue speranze e sogni, in serata decidono di banchettare sul suo sangue ancora presente e vivo sulla strada. Sto parlando dei coloni e delle forze di polizia (etnica) Israeliane.  Sono le 13.30 circa, uno sparo dalle terrazze da il via alle barbarie.

In pochi secondi i soldati lanciano sui manifestanti e su di noi circa 30 granate. Le esplosioni sono continue e devastanti, devastanti per il corpo e per la mente. Ad ogni esplosione pensi, questa adesso mi viene a prendere, questa è per me. Corri. Le esplosioni si susseguono e con essa la gente che viene colpita. Sono diversi i compagni palestinesi che vedo cadere al mio fianco subito dopo un esplosione. Tutto ciò è terribile. Questa volta una di quelle bombe ha preso un palestinese che si trovava sul mio fianco destro. Io e l’altra volontaria internazionale vediamo scorgere lungo la strada una porta di uno stabilimento. Ci rechiamo all’interno. Mai trappola fu peggiore.  Saremo in dieci. Questa volta i soldati decidono di cambiare l’atmosfera, il bianco si propaga ovunque, arriva il gas. C’è un anziano palestinese a guidare la fuga lungo le scale, una Kefia sulla testa ad indicare la via. Lo stabilimento abbandonato pero’ non  ha nessuna copertura, il gas entra ovunque ed il respiro diventa sempre più precario. I colpi di tosse sono il sottofondo del nostro soffocamento. L’anziano uomo si accascia sulle scale e così altri due palestinesi. Io e la mia amica internazionale con le lacrime agli occhi per l’irritazione e forse anche per il terrore, con un cenno decidiamo di recarci di nuovo fuori. Qui in questo palazzo, l’inferno cambia solo scenario, ma sempre di inferno si tratta. Urliamo di uscire, non so se qualcuno ci segue. Fuori continuano le granate. A 200 metri da noi la situazione sembra più calma, ma quel posto, quell’isola felice sembra irraggiungibile. A stenti riusciamo a raggiungere una strada più tranquilla. Ci è mancato poco così ma c’è l’abbiamo fatta. Dopo dieci minuti, sono le ambulanze a prendersi la scena. Restiamo li per riposare un attimo, in cinque minuti ne conto almeno 4. L’aggressione continua, perché si, non chiamatela guerra, quella israeliana e’ un aggressione, è oppressione, è la materializzazione della politica di Israele.

Le esplosioni si susseguono per le tre ore successive, ho perso il numero delle ambulanze che sfrecciano a gran velocità lungo la strada.
Attualmente non conosciamo il numero dei feriti, o se il cimitero dei martiri domani accoglierà un nuovo fratello, ma abbiamo conosciuto la ferocia, abbiamo conosciuto il terrore, abbiamo conosciuto cosa vuol dire vivere una giornata da shabaab.

Mercoledì 28 ottobre – al-Khalil (Hebron, West Bank)

Sono le 21:30 circa, io e il mio gruppo di internazionali siamo tutti insieme per il solito meeting di fine serata. All’improvviso sentiamo una raffica di mitra. C lanciamo tutti al suolo e crediamo che quelli sparì siano indirizzati nel nostro appartamento. Sono così forti, incredibilmente forti e vicini. Dopo gli spari ci affacciamo al balcone. Un palestinese senza vita si fa strada nei nostri occhi, sotto di noi, a pochi metri da noi. Così vicino da poter vivere la sua morte. Lui a terra, il volto verso l’alto e il sangue che si propaga veloce sull’asfalto.
Ora so anche cosa vuol dire vedere la morte di un uomo.
Non avrei voluto mai saperlo.

Mercoledì 28 ottobre – al-Khalil (Hebron, West Bank)

Esattamente tra due mesi lascerò la Palestina.
Prenderò l’aereo e tornerò a casa. Io posso tornare, i palestinesi che questa mattina attraversano la strada e guardano quella chiazza a terra sono costretti a restare per sempre. Forse è questo il vero fardello dell’esistere, il restare.
Negli ultimi quattro giorni gli attacchi nei confronti di noi internazionali si sono moltiplicati. Un’escalation di aggressioni verbali, fisiche, tentativi di entrare dentro casa, sputi e mitra puntati tutto il tempo. Ma quel morto sotto casa cosa significa? Proprio sotto la finestra delle riunioni, proprio mentre discutiamo dei “compiti da svolgere” per il giorno dopo. Forse è un avvertimento. Forse quel morto è causa nostra. Forse un palestinese è morto per me-noi.
Ma il mio vero fardello è stato restare in Italia per troppo tempo.

Giovedì 29 ottobre – al-Khalil (Hebron, West Bank)

Vorrei non aver visto, ma ho visto tutto.
Quelle immagini rimarranno per sempre indelebili dentro di me come tutto quello che vivo, vedo e provo qui.
Forse adesso per me sarà più difficile, forse sarò più riconoscibile e più a rischio. Forse ho paura. Ma io ho vissuto la morte di un ragazzo, ho vissuto la razzia della vita.
Ci sarà un motivo, ci deve essere. Io ero lì in quel momento, dietro quella finestra ed ho visto. Lo devo a tutti i palestinesi ed a quel ragazzo. Glielo devo. Lui ha dato involontariamente la sua vita per me, perché io denunciassi, ed io non posso essere indifferente. Io odio gli indifferenti.
Ho visto tutto e sono contento di averlo fatto.


P.s.: ringrazio il Manifesto nella persona di Michele Giorgio, per raccontarci e darci la possibilità di essere voce libera e critica delle barbarie degli israeliani nei confronti del popolo palestinese.

Link all’intervista rilasciata al quotidiano il Manifestohttp://ilmanifesto.info/testimone-italiano-non-ho-visto-coltello-in-mano-al-palestinese-ucciso/

Venerdì 30 ottobre – al-Khalil (Hebron, West Bank)

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Questa è una triste foto. Forse una delle più tristi.
Oggi i soldati israeliani chiudono il quartiere di Tel Rumeida. Questa volta non c’è la stella di David come marchio di un popolo, ma nomi e cognomi su un pezzo di carta. Il marchio ha cambiato popolo ma ancora sopravvive.
Tutti i palestinesi del quartiere vengono schedati. Proprio oggi, proprio nel giorno di preghiera sono costretti a rimanere qui e non potersi recare alla moschea.
Da oggi, possono entrare nel quartiere solo i palestinesi registrati. L’apartheid continua e si fa sempre più restrittiva. La stessa cosa avvenne nel 1994, ma allora i palestinesi si rifiutarono e gli israeliani risposero con sei mesi di coprifuoco e la possibilità di uscire di casa solo 3 ore a settimana. Ma il sole, anche oggi, ha deciso di darsi a loro, al popolo. L’ombra e la spazzatura segna la scena di confine dei soldati e dei coloni israeliani.

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