Esiste ancora la classe operaia?

di Vincenzo Colaprice

“Ma perché tu senza i padroni cos’è che saresti?? Un morto di fame saresti!! E invece guarda qua che ci hanno dato tutto e ci avresti anche un avvenire sicuro con i padroni!”

Lidia urla queste parole al suo compagno (di vita, s’intende) Lulù Massa e ai compagni (politicamente parlando, sta volta) studenti, rifugiatisi nella loro casa. L’invettiva atroce e pungente rientra in quel film-fotografia di Elio Petri dal nome La classe operaia va in paradiso del 1971. La pellicola è centrata sul tema dell’alienazione, raccontata in piena ottica marxista dal protagonista Lulù Massa (interpretato dal grandissimo Gian Maria Volonté). In questo capolavoro cinematografico la classe operaia è alienata anche dal marxismo stesso: da un lato il sindacato invita gli operai alla lotta “moderata, senza fare il gioco del padrone”, dall’altra gli studenti (siamo nel post-sessantotto), rivoluzionari, idealisti, ma troppo distanti dagli operai, ai quali ricordano costantemente che in fabbrica ci “entrano quando è buio ed escono quando è buio”. Massa e gli altri operai non si curano affatto degli slogan roboanti o convincenti dei due schieramenti, loro lavorano a cottimo (più lavori, più guadagni) e come spiega Lulù nel lavorare a cottimo è come essere “tutti in corsa” per raggiungere il traguardo, tutti contro tutti e lui che è stakanovista è il più odiato perché detta i tempi di produzione, alzandoli sempre di più, ottenendo un guadagno sempre più alto.
Solo quando perde un dito dopo, che la sua macchina si è inceppata, durante i giorni di riposo realizza quanto sia nullificante e non oggettivizzante il suo lavoro. Prende coscienza di classe, frequenta gli studenti (che propagano ovunque gli ideali marxisti) ed un vecchio compagno, finito in manicomio per l’eccessivo stato di alienazione. Allora Lulù realizza, si sente comunista, lotta ma viene espulso dalla fabbrica per attività politica (lui che in quanto stakanovista era “il cocco dell’ingegnere”). Ormai solo, abbandonato, anche dai compagni studenti che non riescono ad accattivarsi gli operai, riesce a recuperare il posto di lavoro grazie al sindacato ma alle stesse condizioni di prima, anzi no, ora niente più cottimo, è stata introdotta la catena di montaggio, ma lo stipendio resta ugualmente una miseria. Una beffa.
Di “paradiso” in questa analisi lucida e devastante di Elio Petri non c’è nulla ma solo l’alienazione in fabbrica, nuda e cruda (nei confronti della macchina, del padrone, del lavoro che si fa e di ciò che si produce), ma anche l’alienazione nella società. Lulù torna a casa dalla fabbrica, entra all’alba ed esce di sera, il sole non lo vede veramente mai. A casa è stanco, si annichilisce davanti alla tv e agli slogan consumistici ridondanti del Carosello. Di notte non ha neanche la forza di concedersi a Lidia ma sprofonda in un sonno profondo e sogna solo e soltanto la fabbrica.
Ma cosa ne è in questo affresco della classe operaia degli anni settanta del comunismo? Della lotta di classe? Della coscienza di classe? A questi operai poco importa dei Manoscrittidi Marx o del Capitale, loro sono “cottimisti, hanno seguito la politica del sindacato, lavoravano per la produttività, incrementavano”. È un film che fa male, perché mostra una classe operaia che vota comunista non perché è classe ma per il tipo di lavoro che svolge. Seguono il sindacato, le direttive, è impressionante la scena in cui Lulù, cercando di riordinare qualcosa, nello sgabuzzino vede il quadro di Stalin, ormai confinato dopo la svolta antistalinista imposta da Chruscev. Come a dire, la mia ideologia la decidete voi.
Ma l’alienazione c’è. Eccome se c’è. Quindi la classe operaia è viva, ma non sa di esserlo. La classe operaia è in balia di sindacati, sindacati che di rivoluzionario e comunista non hanno niente ma vivono di contrattazioni, riforme, sono puramente socialdemocratici. La classe operaia avverte, o meglio ha la necessità di lottare, ha il bisogno di far sentire la propria voce ma la volubilità e la fragilità degli operai del film di Petri non sono altro che i primi sintomi di quello che oggi è la classe operaia.
Per molti è morta. Defunta. Estinta. O confinata nelle fabbriche. La classe operaia ha raggiunto l’apice della lotta.
Non è assolutamente così. Nel secondo dopoguerra un gruppo di intellettuali marxisti, gli stessi che poi hanno guidato ideologicamente i movimenti sessantottini, che in seguito confluirono nella nascita di vari partiti della nuova sinistra negli anni ’70 (Lotta Continua, Movimento Lavoratori per il Socialismo, Avanguardia Operaia e Democrazia Proletaria), avevano avvertito il mutamento e la trasfigurazione del proletariato. Questo gruppo di sociologi, filosofi, storici, economisti e psicanalisti è passato nella storia della filosofia sotto il nome di “scuola di Francoforte”.
Horkheimer e Adorno, gli esponenti principali, elaborano tre considerazioni che possono aiutarci a comprendere lo stato del proletariato e della lotta di classe, considerazioni vecchie più di cinquant’anni ma profetiche e attualissime:
1.     Il progresso non ha più una accezione positiva come in Marx ma è l’espressa volontà della classe egemone di voler dominare la natura e dominare la natura significa voler dominare l’uomo, in quanto sua creatura e dunque lo sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo non è finito e non finirà;
2.       Il proletariato si è concesso alla classe borghese. Gli operai non lottano più per raggiungere dei cambiamenti radicali ma solo per migliorare gradualmente la loro condizione, anche scendendo a compromessi coi padroni;
3.       La classe dominante attraverso i mezzi di comunicazione di massa (radio, televisione, cinema) ha creato l’industria culturale: attraverso la pubblicità suscita i bisogni e determina i consumi, attraverso la televisione impone valori e modelli, il tempo libero viene programmato. L’industria culturale comprende la musica e qualsiasi tipo di svago che sono stati commercializzati dalla borghesia, creando la grande trappola del consumismo che “illude che il consumatore sia il soggetto di tale industria, mentre in realtà ne è il puro oggetto.”
Pare naturale quindi giungere alla conclusione che la lotta di classe è in una fase profondamente negativa. La classe borghese ha un vantaggio spropositato e si è servita di vari mezzi: prima di tutto i mass media come abbiamo già detto, poi il crollo del muro (fine delle ideologie contrapposte) e la fine dei partiti comunisti occidentali, infine il consumismo, ovvero le condizioni di lavoro pessime e alienanti passano in secondo piano se grazie al guadagno ci si può permettere beni superficiali.
In questo modo si è arrivati alla battuta di Lidia con cui ho aperto l’articolo. Non c’è più bisogno di distinguerci in classi “che si contrappongono in modo ostile” per i diversi interessi come direbbe Marx, ma ora per sentirsi uguali ai padroni basta la pelliccia di visione (che nel film Lidia reclama) o basta comprare quei prodotti pubblicizzati in tv per sentirci come gli altri (non a caso, come già detto, “la pubblicità suscita i bisogni e determina i consumi” (ma soprattutto i guadagni che vanno nelle tasche dei capitalisti)).
Questo non fa altro che esemplificare la condizione attuale del proletariato. La coscienza di classe è appannata, gli operai sanno che devono lottare, ma mirano a risolvere i nodi che quotidianamente si presentano ma non guardano più criticamente al sistema. La classe operaia è stata semplicemente affossata e surclassata dal consumismo e dagli effetti della globalizzazione dopo la caduta del muro. Da lì il comunismo non ha retto al socialismo liberale, già in piena ascesa da anni in Europa specie in Italia (il Partito Socialista di Craxi), in Francia (il Partito Socialista di Mitterrand) e in Germania (il Partito Socialdemocratico di Schmidt e l’Unione Cristiano Democratica di Kohl), mentre nel panorama politico di sinistra il marxismo è stato relegato ad esperienze marginali. Con il socialismo liberale si è fatta forte anche negli ambienti di sinistra la convinzione che si debba vivere per lavorare (mentre si dovrebbe lavorare per vivere) e per essere ricompensati.
Come?
Con oggetti di utilità pari a zero ma che per noi sono necessari perché bisogna essere alla moda (semplice e potente strumento per smaltire la sovrapproduzione), perché bisogna ostentare il proprio status quo, perché solo così si può essere accettati e stimati nella società. D’altronde Adorno non si sbagliava: “Attraverso i media passa l’ideologia più vitale per il neocapitalismo: l’idea della “bontà” del sistema e della “felicità” degli individui eterodiretti che lo costituiscono.”
Oltre al consumismo, altro dato che ha affossato la classe operaia è l’antipolitica, infatti secondo un sondaggio Ipsos, alle elezioni politiche di febbraio, il 29% degli operai ha votato Movimento 5 Stelle, il 24% Popolo delle Libertà e il 20% Partito Democratico. Tre partiti liberisti. Un chiaro segno di quanto l’alienazione dal pensiero marxiano messa in atto dalla borghesia abbia avuto effetto. Gli operai non concepiscono un’economia diversa dal liberismo o meglio non la concepiscono affatto.
Così come ormai non concepiscono di essere proletariato. Una coscienza di classe oggi è riscontrabile solo nelle fabbriche o nei campi, ma questo solo perché attraverso i media il concetto di classe operaia è costantemente sotto attacco o limitato agli operai delle industrie o delle miniere. Ma come ricorda il filosofo marxista francese Daniel Bensaïd “quando Marx parla di proletariato non si riferisce tanto al classico operaio delle fabbriche, né ai ferrovieri o ai leggendari minatori di Zola, ma a operai professionisti, artigiani, sarti, calzolai, gioiellieri, rilegatori. Il proletariato infatti è costantemente mutato insieme al mutare delle tecniche e dell’organizzazione del lavoro.” Dunque il proletariato c’è ed è “una vasta maggioranza di persone” inconsapevoli.
Horkheimer dunque aveva profondamente ragione. La classe operaia ha cessato di lottare, è stata corrotta dal capitale che attraverso il consumismo che illude l’operaio di aver raggiunto il benessere economico. Ma che benessere è quello che ciclicamente, ogni vent’anni, ti proietta in una crisi finanziaria? Occorre la rivoluzione quindi, ma secondo il filosofo tedesco la nuova classe che deve guidarla è quella degli esclusi, degli emarginati della società: i disoccupati, gli inabili, i senzatetto, gli immigrati.
In conclusione possiamo dire che la classe operaia è viva, vegeta e si è ampliata, inglobando anche le fasce più deboli economicamente del ceto medio. Nulla è cambiato nei rapporti di classe e nei rapporti di produzione se non l’aspetto, che adesso è diventato più subdolo. La classe operaia oggi non può essere considerata solo quella che lavora nella fabbriche ma anche quelli che lavorano in proprio, in piccoli esercizi e che mandano avanti con le loro sole mani la baracca, vivendo della propria forza-lavoro. Il proletariato c’è, ma è dormiente. Spetta a noi svegliarlo e rilanciare oggi più che mai le tesi marxiane. Si discute continuamente sulla necessità di rifondare la sinistra: ecco, riconoscere l’esistenza del proletariato e la sua condizione attuale può e deve essere un punto di partenza.
È vero però, oggi noi comunisti siamo pochi e fragili, spesso sconfitti o ritenuti pazzi, estremisti, senza speranza, indottrinati. Ma oggi più che mai emerge l’attualità della lotta di classe da riprendere e fomentare, il capitalismo è in vantaggio ma sta a noi rimontare. Noi non abbiamo “nulla da perdere, all’infuori delle nostre catene,” noi abbiamo “un mondo da guadagnare.”

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