Le ragioni della nostra presenza

di Angelantonio Minafra

In una società avanzata e con una complessa rete di interessi fra i suoi settori economici, gli strumenti della decisione istituzionale ed i meccanismi che portano alla scelta della classe dirigente sono poco più che carte truccate, che la democrazia liberale chiama ‘libere elezioni’. Sono truccate soprattutto dalla ipocrisia dei partiti che vogliono conservare potere e sistema di sottogoverno (appalti, concorsi, spesa pubblica mirata) a proprio vantaggio, poi perché promettono delle cose e ne fanno poi altre funzionali agli interessi dei gruppi sociali che rappresentano. Infine i voti dei cittadini non sono tutti uguali: gli sbarramenti vergognosi delle leggi elettorali e la mancanza di proporzionalità garantiscono un enorme vantaggio alla ‘governabilità’ e sopprimono in modo assoluto la presenza di ogni voce di dissenso e di proposta delle classi subalterne.

La realizzazione dei bisogni dei lavoratori, degli sfruttati, di coloro che possono solo vendere la propria forza-lavoro sul mercato ad un prezzo che non sono loro a stabilire, passa solo attraverso la lotta, l’organizzazione, l’unità per conquistare diritti e servizi che non vengono gentilmente concessi ma strappati nel fuoco del conflitto sociale fra lavoro e capitale. Il diritto all’abitazione per tutti, un salario decente adeguato al costo della vita in cambio di un lavoro socialmente utile, la scuola per i propri figli, la sicurezza sociale per gli anziani e i disabili non vengono regalate dall’alto: costano sacrifici e lotte, vanno rinegoziati ogni giorno con i rappresentanti del potere delle banche e dei padroni, che vedono il costo del lavoro e la spesa pubblica come numeri da comprimere perché mettono a rischio i loro profitti. I lavoratori salariati, insomma, creano la ricchezza, ma ricevono si e no il minimo necessario a sopravvivere.

Di chi stiamo parlando?  Dei lavoratori a falsa partita IVA sottoposti alla schiavitù del moderno cottimo, dei giovani precari stritolati dai contratti interinali e a chiamata nei call center, alle casse degli ipermercati, fra i tavoli dei ristoranti, di laureati e diplomati che devono emigrare per cercare un lavoro decente senza inchinarsi al potente di turno, di chi raccoglie pomodori e frutta una intera giornata per due euro all’ora, dei manovali dell’edilizia o dei metalmeccanici che ancora oggi presentano un tasso di mortalità sul lavoro degno del secolo scorso, dei fattorini della logistica globalizzata che consegnano freneticamente merci che potremmo produrre sotto casa, degli infermieri addetti alla cura alle persone in una filiera sanitaria ormai vista come una azienda da spremere, dei piccoli commercianti schiacciati dai costi della grande distribuzione.

Questo è il proletariato fatto di invisibili sfruttati, questa è la classe di uomini e donne dei quali ci fanno credere – nei telegiornali, sulla stampa, in internet e in tutti gli strumenti di comunicazione al servizio del potere- che siano liberi di scegliersi il proprio lavoro e di far valere il loro ‘merito’ e le loro capacità. Noi non abbiamo mai creduto che il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (a partire dalla sicurezza) di queste persone dipenda dalle libere elezioni. Il 40-50 per cento degli aventi diritto al voto, di estrazione proletaria o popolare, a votare non ci va nemmeno, perché non trova o non crede più in alcuna rappresentanza.

Ma proprio perché, se la carte false delle ‘libere elezioni’ selezionano un ceto politico mediocre di sostanziali schieramenti-fotocopia e asservito al capitale finanziario e alla rendita immobiliare, i comunisti – finché gli spazi della democrazia liberale saranno praticabili (e quelli di cui godiamo li dobbiamo alla Resistenza antifascista e alla Costituzione repubblicana…) – non possono esimersi di utilizzare la tribuna elettorale. Per liberare energie e risorse che confinano ormai con la disperazione, per spiegare mille volte e mille volte ancora- al pensionato, alla massaia, al commerciante del quartiere, allo studente, al giovane disoccupato – che c’è qualcuno colpevole della loro miseria, che la realizzazione dei loro bisogni essenziali passa attraverso un nuovo modello di sviluppo, di produzione e distribuzione di merci davvero utili e non solo di profitti.

Quindi anche le elezioni regionali sono un momento di questa lotta. Siamo consapevoli che, nella terra della ‘primavera pugliese’ di Vendola, del ‘laboratorio partecipativo’ di Emiliano, una organizzazione politica deve raggiungere l’8% per eleggere rappresentanti in Consiglio regionale e che per avere una doppia preferenza di genere ( votare insieme un uomo ed una donna candidati per riequilibrare la rappresentanza femminile) ci sono voluti 8 anni di inutili scaramucce fra le svogliate enunciazioni dei ‘democratici’ e la destra maschilista e conservatrice, ed infine un decreto governativo che li obbliga a questa regola. Non siamo stati noi a deciderlo, non saremo noi ad emettere un giudizio sul terrore dei notabili (maschi di destra o di ‘sinistra’) di perdere la poltrona.

Quindi in Puglia non è vero che ‘uno vale uno’ , come dicono i rivoluzionari della ‘scatola del tonno’: ci saranno migliaia di voti di cittadini che senza un sistema proporzionale non avranno rappresentanza. Non ci saranno consiglieri comunisti che disturberanno i giochi consociativi ed il trasformismo da campagna acquisti di Emiliano e soci.

Bisogna modificare in Puglia il modello di sviluppo, per rispondere agli obiettivi sociali, alla tutela dei beni comuni e alla creazione di posti di lavoro: un turismo sostenibile e non invasivo, piccole-medie imprese innovative ad alto contenuto tecnologico, una filiera agro-alimentare che curi la qualità del cibo e dell’ambiente, il recupero di spazi e risorse delle aree interne, le energie rinnovabili dal solare e dei biogas dal ciclo dei rifiuti. Bisogna ridisegnare gli strumenti della decisione e del controllo, le priorità della spesa e soprattutto liberare la macchina burocratica dalle lobby tecniche legate alle organizzazioni di categoria e padronali. La Puglia e le regioni meridionali restituiscono ogni anno alla Unione Europea decine di milioni di euro dei fondi di sviluppo comunitari per la incapacità di utilizzarli per infrastrutture e spesa con ricadute sociali, soprattutto nell’agricoltura e nell’artigianato e piccolo commercio. Vuol dire che non esiste il personale tecnico ed amministrativo all’altezza di questo compito e la decisione politica è lenta e poco funzionale alla innovazione, quando non corrotta o clientelare. Che cosa ha da dire il decennio d’oro del centrosinistra di Vendola ed Emiliano sulle condizioni del trasporto pubblico pugliese e sulla gestione delle ferrovie in concessione? Che cosa ha da dire della piaga del caporalato e dello sfruttamento della manodopera agricola e della gestione delle bidonville dove si ammassano migliaia di lavoratori senza diritti?

Se questo è il compito minimo di una società che si vuole moderna, invece che visione abbiamo di fronte? Un capitalismo, fatto da troppi imprenditori affaristi che vivono di contributi e assistenzialismo pubblico, che si lamenta per le tasse ma ha bisogno continuo di ‘incentivi’ (cassa integrazione, fiscalizzazione degli oneri sociali), che privatizza i profitti e mette in comune le perdite, non è la soluzione ma la parte essenziale del problema. L’ILVA di Taranto resta il paradigma spettrale che racchiude nella sua tragedia questo sistema, col suo ricatto di un lavoro che inquina e uccide.

E allora, quando di fronte a tutto questo sentiamo ogni volta le promesse illusorie dei falsi riformisti, dei pragmatici del ‘male minore’, i cantori del ‘voto utile’ che predicano la ‘centralità delle istituzioni’, noi comunisti torniamo a coltivare con convinzione e sacrificio le nostre relazioni nella società e a dire che votare non è sufficiente, e votare il Partito Democratico ed i servi sciocchi della borghesia che cercano le briciole del banchetto per il loro tornaconto è anzi un errore.

Il voto ai comunisti è un voto di liberazione, di consapevolezza e di partecipazione. L’inganno è affermare che si possa cambiare il governo senza cambiare i rapporti di forza nella società, praticando i conflitti sui luoghi di lavoro, contro le rendite, per la qualità dei servizi pubblici, per la difesa delle risorse ambientali di tutti, come anche nelle istituzioni rappresentative.
Un nostro maestro ci insegnava in passato che chi lotta può perdere la propria battaglia, ma chi non lotta ha già perso tutto.

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