L’incontro con Peppino

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di Francesco Minafra

Diario di una settimana ad un campo di volontariato di Libera

Peppino: È solo un mafioso, uno dei tanti
Giovanni: È nostro padre!
Peppino: Mio padre, la mia famiglia, il mio paese! Io voglio fottermene! Io voglio dire che la mafia è una montagna di merda! Io voglio urlare che mio padre è un leccaculo! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente!

Chi ha visto il film I cento passi sicuramente avrà capito in che scena c’è questo dialogo. Per chi il film non l’ha visto invece, in sintesi posso dire che parlava di una persona speciale, di una persona con un sogno, e non un eroe. Era un uomo come tutti noi, beveva, mangiava, si innamorava, si ammalava, sognava. Col tempo cresce, si avvicina alla sinistra, studia e diventa giornalista e si candida anche a sindaco. Ma era giglio di una famiglia mafiosa che si rivolta al suo stesso sistema. Sarebbe forse ancora in vita se non avesse risposto alla sua coscienza, alla quale ha obbedito fino all’ultimo, che gli ordinava di schierarsi contro i potenti, contro i mafiosi. Fonda Radio Aut con i suoi compagni e utilizza l’ironia come mezzo per diffondere un po’ di luce nella buia omertà tutta attorno a lui, in un paese dove tutti sapevano ma tutti tacevano. Finchè a trent’anni, il 7 maggio 1978, dopo avergli ucciso il padre per le regole di cosa nostra, uccidono anche lui: Peppino viene rapito dalla sua macchina, fermo ad un passaggio a livello, tramortito in un casolare vicino all’aeroporto e fatto letteralmente a pezzi col tritolo dopo essere stato legato ai binari. Il tritolo è l’arma preferita della mafia in quanto cancella la dignità della vittima, di cui non rimane un cadavere da seppellire ma soltanto pezzi di corpo e sangue. I suoi resti verranno trovati fino a due chilometri di distanza dall’esplosione e le sue viscere annodate ai fili dell’elettricità.

Sono Francesco e di anni ne ho diciassette. Nata un po‘ per caso, ho scelto di fare questa esperienza del campo di Libera (associazioni, nomi e numeri contro le mafie) a Marina di Cinisi, località Ciuri di Campo, non troppo distante da Palermo, che so per certo porterò sempre nel cuore. Abbiamo alloggiato in un bene confiscato, insieme a una quarantina di volontari per una settimana, in una piccola parte di diversi ettari di villette, costruite da Achille Piazza, imprenditore edile e colletto bianco di Cosa Nostra, vicinissime al mare, ma anche all’autostrada e all’aeroporto di Punta Raisi, possibili vie di fuga in caso di pericolo per l’imprenditore.

Cosa abbiamo fatto in questo campo? Lavori vari che spaziavano dalla cucina, dalla pulizia degli spazi, dal cercare di creare una raccolta differenziata in un paese in cui è completamente assente, alla raccolta di pomodori e altro dalla campagna confiscata, o al dare una mano all’associazione Addiopizzo: insomma c’era sempre qualcosa da fare per aiutare. E soprattutto giorno per giorno abbiamo preso consapevolezza dell’organizzazione Cosa Nostra e di come essa si sia radicata nel territorio, parlo di Cinisi come esempio, ma per territorio intendo tutta quest’isola.

Parlare di mafia non è per niente facile. Almeno questo è quello che penso io con i miei pochi diciassette anni, con la mia voglia di capire. Sono partito con le idee confuse e sono tornato con altre idee anche più confuse, perché viverci una settimana lì non è uguale a viverci tutta una vita, a guardarla in faccia ed a sentire questa cultura mafiosa sulla pelle. Ho capito che il veicolo con cui questa criminalità viaggia si chiama ignoranza, che sotto molti aspetti si trasforma in omertà e quindi silenzio ( e qui è da ricordare la frase di Borsellino “chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”). Ho capito che queste organizzazioni criminali si muovono laddove si muovono i soldi. Ho capito che l’unico modo per cambiare si trova nelle nuove generazioni e già il fatto che eravamo lì a parlarne testimonia che il progresso è già in atto. Abbiamo infatti a lungo discusso con Giovanni Impastato, che ci ha parlato a lungo di Cinisi e della storia familiare prima e dopo la morte di Peppino e ci ha fatto capire quanto meravigliosa sia in realtà questa terra, con Francesco Forgione, calabrese, che si è presentato come ex presidente della commissione parlamentare antimafia, il quale ha discusso ampiamente sulle differenze tra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta, con il magistrato Vittorio Teresi, una voce attiva direttamente dal di dentro della giustizia siciliana, ma vedere una scorta al lavoro per chi non ne ha mai avuto bisogno fa sempre un certo effetto; poi abbiamo discusso in momenti diversi con il professor Vassallo e col figlio del magistrato Sereni laureato in Scienze per la Pace riguardo l’immigrazione e il fatto che le società criminali sono strettamente legate al traffico di esseri umani, del progetto “Mare Nostrum” , delle cause che spingono gli africani a migrare, del fatto che da sempre i popoli migrano quasi come fatto fisiologico per cercare di sopravvivere altrove, e che non ci dobbiamo scandalizzare nel vedere in tv tutti questi sbarchi e questa disperazione; abbiamo discusso delle condizioni in cui i migranti vengono trattati durante i viaggi verso la Libia e durante la traversata in mare, delle possibilità che hanno/non hanno di inserirsi in una società civile, di come sono tenuti nelle zone di accoglienza anche per anni e poi scappano, di come inevitabilmente finiscono nel girone del crimine spacciando, prostituendosi, con piccoli scippi o furti, non avendo all’orizzonte altre possibilità concrete di sostentamento legale. Per finire poi numerosi ad affollare le carceri italiane, insomma questo è un sistema che funziona a metà: per quanto riguarda il mare i soccorsi sono tempestivi e provvidenziali, ma una volta sbarcati a terra dopo la prima accoglienza i migranti trovano mille e più difficoltà in aggiunta a quelle che hanno già subito. Abbiamo anche avuto la possibilità di discutere con Antonio Zagara, figlio di Salvatore che fu una vittima innocente di Cosa Nostra ed al quale dopo parecchi anni è stata dedicata una misera insegna alla presenza di Antonio e famiglia, due vigili, il sindaco e il fotografo pronto per immortalare il momento; e nel corso della settimana abbiamo incontrato anche diverse persone che testimoniavano in tutta onestà di essere stati amici o conoscenti di Falcone o Borsellino o Peppino, con cui che spesso mangiavano anche insieme, segno di come fossero persone come tutte le altre e non eroi isolati dal loro popolo.

Abbiamo anche visitato dei luoghi simbolici, come a Palermo sotto casa di Falcone dove si trova l’albero con appesi tantissimi fazzolettini scout e lettere di bambini di scuola elementare, testimonianza viva di gente del domani, poi il mercato e il quartiere antico di Ballarò, dove convivono senza problemi sedici etnie diverse in una atmosfera di successo cosmopolita e comunitario. Qui abbiamo pranzato in un locale co-working, dove più realtà lavorative trovano un luogo dove esercitare la propria professione ad un basso costo di affitto e per risparmiare ulteriori costi l’altra metà del locale viene adibita a ristorante, ovviamente a basso prezzo; un gruppo di ragazzi ha potuto assistere giovedì scorso al processo per le trattative stato-mafia.

Abbiamo visitato il paese di Cinisi, la casa degli Impastato ora “Casa Memoria di Felicia e Peppino Impastato” e cento passi piu in là, sulla strada, la casa confiscata di Don Tano, con differenze visibili ad occhio nudo rispetto a grandezza, pavimenti, corrimano ed ambienti della casa; successivamente siamo giunti al casolare dove Peppino fu tramortito e più avanti sui binari dove fu fatto esplodere. I giornali di regime avevano scritto che in quel luogo, dopo aver coscientemente sbattuto la testa contro i sassi e aver sparso sangue intorno, si era da solo legato ai binari e sempre da solo si era suicidato accendendo da inesperto il tritolo. Una sensazione di particolare tristezza mi ha rapito dopo questa visita per tutta la serata.

Alla fine di questo racconto – diario di una ‘vacanza diversa’ ma che per molti miei coetanei forse varrebbe la pena di fare –  mi accorgo di due cose: forse non ho scritto neanche la metà di ciò che mi passa per la testa e ricordo ancora; forse ho nominato troppo spesso il nome Peppino. Meglio così, ho anche appeso nella mia stanza una sua foto scattata qualche tempo prima di essere ucciso e sembra e mi sembra che con il suo sguardo approvi questo mio piccolo contributo. Non vorrei aver dipinto troppo male Cinisi, città di cui ho sentito molto parlare ed ho visitato solo per un pomeriggio. Anche se gran parte della città, mi è stato detto, vive con indifferenza la storia di questa vittima della mafia, un’anticonformista per quei tempi, vedo nella mia e nelle successive generazioni il terreno ideale per quella che potrà essere una città-simbolo meravigliosa.

E’ utile aggiungere che al campo ci sono state anche grandi tavolate a base di arancini, suonate di chitarra sotto le stelle e bagni in un mare fantastico…

Con questo scritto non mi propongo di sconfiggere la mafia, piuttosto di diffondere la conoscenza per far sì che un giorno questo territorio si liberi del suo cancro che sembra, e ripeto “sembra”, invincibile.  Alla fine un invito: tutti coloro che hanno letto fino in fondo il diario della mia esperienza cerchino, se possibile, di partecipare a un campo di Libera,  magari una delle prossime estati, per dimostrarsi un po’ più utili fuori e sentirsi un po’ più liberi dentro.

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