Stato canaglia

di Vincenzo Colaprice

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Articolo 11 della Costituzione Italiana

Partiamo di qui. Da quel ripudia e dal senso dell’articolo 11 della nostra Costituzione. La Costituzione non dichiara una sua neutralità e un completo rifiuto della guerra, poiché sarebbe smentita dall’articolo 52 (“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”), ma afferma l’avversione nei confronti di una guerra contro o in supporto di un determinato popolo, anzi promuove la pace.

Questo articolo può essere considerato come uno dei più stuprati dalla classe politica italiana dalla guerra del Golfo in poi. Le esplosioni di sentimentalismo umanitario che provengono all’unisono dalla destra moderata, conservatrice e liberista e dalla sinistra riformista paradossalmente non fanno altro che fomentare i venti di guerra, non tanto civile quanto internazionale, in Siria.

È un’impresa ardua cercare di sciogliere tutti i nodi che riguardano la Siria e l’attuale “guerra civile”, se così può essere definita. Quello che si può dire con certezza della Siria è che il movimento di protesta è partito in ritardo e in sordina rispetto ai paesi nordafricani protagonisti della “Primavera araba”.

Le proteste hanno inizialmente aperto la strada ad alcune riforme (tra cui l’abolizione dell’oscuramento dei social network) da parte del partito Baʿth (forza politica di sinistra, nazionalista, monopartitica, socialista e panarabista), al potere in Siria dal 1963. Insomma una dittatura che modula la repressione e le politiche in base alla tendenza del leader di partito, in questo caso Bashar al-Assad visto ad inizio 2000 come “ispiratore di speranza” per le sue politiche riformiste e progressiste e in controtendenza rispetto al padre Hafiz al-Assad (presidente dal 1971 al 2000), autoritario e repressivo e al fratello Basil al-Assad, successore designato ma morto nel 1994.

Bashar al-Assad, come la maggior parte dei principi e dei delfini dei regimi monarchici e dittatoriali africani e mediorientali, ha studiato in Europa, ha sposato una donna anglo-siriana, è laureato in oftalmologia e poco interessato alla politica fino alla morte del fratello. Proprio per questo motivo la sua formazione occidentale e meno politicizzata aveva indotto molti osservatori ad intravedere una speranza nella sua figura. Ma la sua linea politica fin dall’inizio, seppur in continuità con il padre nelle relazioni estere, non è riuscita a contenere proteste e le rivendicazioni di gruppi etnici e religiosi, ma soprattutto cerca di mantenere saldamente nelle proprie mani il potere politico e i benefici economici derivanti dai giacimenti di gas e petrolio che spartisce con l’oligarchia Ba’th che governa la Siria.

Ora, a parte questa breve analisi politica e biografica della Siria e del suo presidente, il nodo centrale è senza dubbio la posizione geopolitica della Siria.

Bisogna quindi partire lì dove termina per Hobsbawm “il secolo breve” ovvero tra la caduta del muro di Berlino e il dissolvimento dell’URSS. Terminata l’era della guerra fredda se gli USA hanno mantenuto il classico assetto imperialista e militarista nel sud America, in Africa e in Europa, la neonata Federazione Russa ha perso o ridotto la propria presenza militare nell’est Europa o in Medio Oriente lasciando spazio libero agli USA che hanno arricchito la loro collezione di basi militari sparse per il mondo, presidiando anche questi nuovi territori. Le basi militari specie quelle sparse nel Mediterraneo fungono da “portaerei” per le azioni militari a stelle e strisce (l’uso delle basi italiane durante la guerra in Libia del 2011 ad esempio) e per garantire quindi copertura e protezione per gli interessi prima di tutto economici.

Come già preannunciato dal filosofo socialista libertario e anarchico Noam Chomsky ne La fabbrica del consenso, caduta la paura rossa, terminato il confronto col movimento comunista, considerato sconfitto, il nuovo nemico è il terrorismo. E proprio gli USA infatti danno vita al nuovo nemico solo qualche anno dopo la fine della lotta con l’URSS, teorizzando l’asse del male, composto dagli “stati canaglia” (Cuba, Siria, Iran, Iraq, Sudan e Corea del Nord), così definiti perché sostenitori ed esportatori del terrorismo, ma in realtà è solo una lista di paesi-ostacoli per l’espansione mondiale del dominio economico e industriale statunitense.

Nel 1989, subito dopo la caduta del muro di Berlino, che mise fine alla minaccia sovietica, il governo di George Bush sottopose al Congresso la sua richiesta annuale di un gigantesco budget per il Pentagono: “Nella nuova era che si prospetta, l’impiego delle nostre forze probabilmente non riguarderà più l’Unione Sovietica, ma piuttosto, senza dubbio, il terzo mondo, nei confronti del quale si riveleranno certamente necessarie nuove capacità e nuovi modi di procedere”. Egli aggiunse che gli Stati Uniti avrebbero dovuto addestrare un numero considerevole di forze d’assalto, in particolare quelle destinate al Vicino Oriente, dove “le minacce ai nostri interessi”, che esigono degli interventi militari diretti, “non possono essere attribuite al Cremlino”, contrariamente, sia detto en passant, a una sequela infinita di controverità diffuse dalla propaganda americana per quarant’anni, oggi morte e sepolte.

All’epoca, le minacce contro gli interessi americani non potevano essere attribuite nemmeno all’Iraq. Saddam Hussein, che combatteva allora la guerra contro l’Iran dell’imam Khomeiny, era un amico molto corteggiato da Washington e un partner commerciale. Ma il suo statuto sarebbe cambiato radicalmente alcuni mesi più tardi, nel luglio 1990, allorquando interpretò, a torto, l’acquiescenza americana a una ridefinizione dei confini con il Kuwait operata con la forza come un assegno in bianco per invadere tutto il Paese, vale a dire per non dare altro che quel che gli Stati Uniti avevano fatto in quel di Panama nel dicembre 1989.

I parallelismi storici non sono però del tutto esatti. Mentre Washington si ritirò parzialmente da Panama dopo avervi insediato un governo fantoccio, un’ondata di proteste si abbatté su tutto l’emisfero, Panama compresa. Un’ondata di proteste che fece letteralmente il giro del mondo, obbligando Washington a porre il suo veto a due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e a pronunciarsi contro una risoluzione dell’Assemblea Generale che condannava “la violazione flagrante del diritto internazionale e dell’indipendenza, della sovranità e dell’integrità territoriale degli Stati” ed esigeva il ritiro da Panama “del corpo di spedizione americano

Questi avvenimenti alimentarono la riflessione di analisti politici come Ronald Steel, il quale si interrogava sull’ enigma cui gli Stati Uniti si stavano confrontando: “Come nazione più potente del globo, vedono la loro libertà di impiegare la forza sottoposta a più costrizioni di quante non ne abbiano altri paesi”. A questo enigma si deve il successo temporaneo di Saddam Hussein in Kuwait, nell’agosto del 1990, in contrasto con l’incapacità di Washington di imporre la sua volontà a Panama.

Noam Chomsky, Stati canaglia, Z Magazine, Aprile 1998

Emerge quindi chiara non solo la volontà degli USA di non mettere fine all’impero di stati satelliti costruito durante la guerra fredda, bensì di rafforzarlo ed estenderlo. Le finalità? Controllare sempre più le risorse energetiche fondamentali oggi e nel futuro, ovvero petrolio e gas naturali che nel Medio Oriente sono presenti in quantità sterminate. Non a caso gli Stati Uniti, il 5% della popolazione mondiale, consumano il 25% del petrolio mondiale.

Dall’altra parte della barricata però troviamo Russia e Cina che cercano di fermare l’avanzata imperialistica americana, non tanto per far rispettare il principio di autodeterminazione dei popoli, quanto per mantenere il controllo commerciale, economico ed energetico in Africa, nel Medio Oriente e nell’Asia, nonché la loro influenza.

Ma se Assad era definito “ispiratore di speranza” come può ora diventare il nemico numero uno degli USA e della NATO? Possiamo utilizzare ancora il pensiero di Chomsky sul cambiamento da stato amico a stato nemico dell’Iraq di Saddam:

Non sono i crimini di Saddam Hussein contro il suo stesso popolo – in maniera particolare l’utilizzo di armi chimiche, perfettamente noto ai servizi d’informazione americani, contro i civili – ad aver trasformato il dittatore nel “mostro di Baghdad”. Prima dell’invasione del Kuwait, gli Stati Uniti gli avevano mostrato un sostegno così forte da gettare un colpo di spugna su un attacco aereo iracheno contro la nave da guerra USS Stark (che fece 37 vittime tra i marinai americani), privilegio di cui solo Israele aveva sino ad allora beneficiato (all’epoca del suo attacco, “per errore”, all’USS Liberty, nel giugno 1964, che fece 34 morti). Essi avevano coordinato con Saddam Hussein la campagna diplomatica, militare ed economica che aveva condotto, nel 1989, alla capitolazione dell’Iran “di fronte a Baghdad e a Washington”, come scrive lo storico Dilip Hiro; essi avevano persino chiesto a Saddam Hussein quei piccoli servizi che normalmente vengono resi da uno Stato vassallo: ad esempio, farsi carico dell’addestramento di centinaia di mercenari libici reclutati dagli americani per rovesciare il colonnello Gheddafi, come ha rivelato un ex-consigliere di Reagan, Howard Teicher.

Se Saddam Hussein è scivolato nel gruppo degli “Stati canaglia” è perché ha morso il freno e si è mostrato disobbediente, esattamente come un altro criminale di peso notevolmente minore, il generale panamense Manuel Noriega, i cui crimini maggiori furono commessi quando era al servizio – remunerato – di Washington. Cuba è stata classificata all’interno di questa categoria per la sua presunta implicazione col “terrorismo internazionale”, ma non è avvenuta la stessa cosa per gli Stati Uniti che per circa quarant’anni hanno moltiplicato gli attacchi terroristi contro l’isola caraibica e gli attentati contro Fidel Castro. Anche il Sudan è stato classificato come “Stato canaglia”, ma non gli Stati Uniti che vi hanno bombardato, nell’agosto del 1998, una presunta fabbrica di armi chimiche, che le autorità di Khartoum hanno successivamente dimostrato trattarsi di una industria farmaceutica.

Semplicemente Assad non ha risposto alle aspettative occidentali, non ha mai messo la parola fine alla guerra tra Siria e Israele (che da sempre aspira ad un ruolo egemone nel Medio Oriente) in piedi dal 1962 ed è stretto alleato dell’Iran. Infatti Iran e Siria sono gli ultimi due stati canaglia mediorientali che appaiono sulla lista americana e che è necessario battere per assicurarsi il controllo delle riserve energetiche, per favorire lo smaltimento della sovrapproduzione, la vendita di armi, l’impennata del prezzo del petrolio, che significa guadagno attraverso le tante multinazionali del petrolio e per estendere l’influenza nel Medio Oriente, continuando una guerra fredda mai finita con la Russia e con la Cina. Tutto a spese del popolo siriano, tutto organizzato con il plagio dell’opinione pubblica (uso di armi chimiche sui civili [a che pro poi?], i ribelli sono buoni [ma chissà perché appoggiati, armati e finanziati da Arabia Saudita, Francia, USA, Qatar, Regno Unito, Germania e Turchia], le truppe lealiste sono terroriste), tutto profitto.

E l’Italia? L’Italia ovviamente si adegua e avrebbe solo da guadagnarci tra vendita di armi e importazione di risorse energetiche.

Con questo piccolo viaggio tra le trame dell’imperialismo a stelle e strisce possiamo capire meglio la situazione siriana e perché gli USA e l’occidente abbiano tanto interesse nel rovesciare il governo di Bashar al-Assad, sperando, anche se c’è ormai poco da sperare, che si eviti qualsiasi intervento militare e qualsiasi ingerenza nella guerra civile, auspicando piuttosto aiuti umanitari e sanitari e non “missioni di pace”: la pace si fa con la pace.

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